Il discorso è in effetti molto più ampio, e non riguarda solo gli apparecchi a pressione non soggetti alla fiamma; la domanda dovrebbe essere infatti: perché è importante per l’Europa e per l’Italia arrivare alla creazione di un sistema di norme condivise da tutti gli Stati dell’Unione Europea, sistema che sia altrettanto coerente e completo di quello americano? Perché valeva la pena che l’Europa spendesse tanto tempo e tanto denaro per inventare delle norme nuove? Non potevamo semplicemente limitarci a prendere in blocco le norme americane, che, soprattutto nel campo dell’impiantistica e della caldareria si basano su un’esperienza vecchia ormai di decenni, che sono sicuramente ben conosciute da tutta l’industria mondiale, tanto da essere adottate non solo negli Stati Uniti d’America, ma anche in tutti quei paesi che sono privi di una normativa propria?
La risposta a queste domande non è immediata: per rispondere, dobbiamo prima di tutto cominciare a domandarci perché mai in ogni paese, sin dagli albori dell’era industriale, sia nato il bisogno di standardizzare, ossia di creare delle norme riconosciute da tutta l’industria, che obblighino (per legge, per contratto o per prassi consolidata) i costruttori e gli utenti di qualsiasi prodotto industriale ad adottare delle regole da tutti condivise a cui quel prodotto deve rispondere.
Facciamo un esempio banale: supponiamo di dover scegliere il coefficiente di sicurezza da usare nel calcolo della sollecitazione ammissibile di una lamiera da usare per la costruzione del fasciame di un apparecchio a pressione. Che succederebbe se non ci fosse una norma che stabilisce il valore di quel coefficiente di sicurezza, fissandolo, ad esempio, a 1,5? In un regime di libera concorrenza, presto o tardi qualcuno scoprirebbe che è proprio quel piccolo insignificante numero a determinare lo spessore della lamiera, e di conseguenza il peso ed il prezzo dell’apparecchio; e che per risparmiare basterebbe scegliere un numero un po’ più piccolo, ad esempio 1,4, o magari 1,3, o ancora più in giù: il tutto al solo scopo di mettere sul mercato un prodotto più economico di quello dei diretti concorrenti, anche se (ovviamente), un po’ meno sicuro. Ecco un’esigenza primaria della standardizzazione: garantire che tutti i prodotti a cui lo standard si riferisce possiedano lo stesso livello di sicurezza.
Ma è questa l’unica esigenza? Facciamo un altro esempio: se qualcuno non avesse provveduto a fissare le misure da usare per le tubazioni, stabilendo che un tubo DN 100 ha in effetti un diametro esterno di 114,3 mm e uno spessore che va preferibilmente scelto tra 6,02 mm, 8,56 mm e 17,12 mm, ogni pezzo di tubazione montato su un impianto diventerebbe un caso particolare: con il che non sarebbe più possibile per un costruttore (di apparecchi o di tubazioni) tenere a magazzino dei tubi, perché mancherebbe la sicurezza di poter impiegare di nuovo su un altro progetto un tubo con determinate dimensioni; inoltre tutti i fabbricanti di tubi dovrebbero dotarsi di una serie infinita di macchinari e di attrezzature, per far fronte alla serie infinita di diametri e di spessori che i loro clienti potrebbero di volta in volta richiedere: e chi avesse bisogno di un solo metro di tubo con determinate dimensioni, dovrebbe farselo costruire apposta, con costi ovviamente assurdi. Ecco dunque almeno altre due esigenze della standardizzazione: da un lato velocizzare e razionalizzare qualunque progetto riducendo le scelte possibili, dall’altro assicurare una maggiore economia nell’approvvigionamento, nella gestione delle scorte di magazzino e nella costruzione.
Esistono poi situazioni in cui l’assenza di uno standard è assolutamente impensabile: ve lo immaginate che guaio sarebbe se qualcuno non avesse provveduto a standardizzare le prese di corrente e le relative spine, il voltaggio e la frequenza degli apparecchi elettrici, lo scartamento delle rotaie dei treni, i floppy disc dei computers, le cassette VHS o i DVD? Tante cose a cui tutti siamo ormai da anni abituati, risulterebbero del tutto impossibili: in tutti questi casi il problema creato dall’assenza di uno standard non sarebbe solo quello di essere costretti a fare una cosa in maniera meno economica, ma quello di non riuscire a farla del tutto; in altre parole, la nostra stessa civiltà senza la standardizzazione sarebbe impensabile.
Ma perché allora non ci si mette d’accordo a livello mondiale per adottare tutti lo stesso standard per lo stesso prodotto? Semplice: perché esistono esigenze specifiche locali, che non possono essere condivise a livello mondiale; negli Stati Uniti d’America le lunghezze si misurano in pollici, piedi e yarde, mentre negli altri paesi si misurano in millimetri, centimetri e metri: è chiaro cioè che la standardizzazione deve necessariamente basarsi sui sistemi di misura, sulle regole, sulle prassi industriali e sulla legislazione esistenti nel paese in cui lo standard viene impiegato: e finché i sistemi di misura, le regole, le prassi industriali e la legislazione cambieranno da un paese all’altro, non sarà possibile creare una standardizzazione univoca a livello mondiale.
Ogni standard nazionale nasce dunque col preciso intento di favorire l’industria del paese in cui è nato: e non è detto che possa essere trasferito senza problemi in un altro paese. Facciamo un esempio nel campo che ci riguarda più da vicino, quello delle attrezzature a pressione: prendete un materiale a specifica americana (ASME o ASTM che sia): nella specifica di riferimento troverete unicamente le caratteristiche a freddo (limite elastico, carico di rottura, allungamento a rottura) che devono essere verificate nelle prove meccaniche di collaudo, da eseguire tutte a temperatura ambiente. Non troverete mai valori a temperature elevate (limiti elastici e caratteristiche di scorrimento viscoso), e ben raramente troverete le resilienze a temperature inferiori all’ambiente. Specifiche di materiale concepite in questo modo non pongono problemi negli Stati Uniti d’America, per il semplice fatto che il codice di calcolo americano ASME fornisce esso stesso i valori delle sollecitazioni ammissibili a temperature elevate da usare nei calcoli (ma nel codice ASME è detto chiaramente che ciò non implica alcuna garanzia da parte del fabbricante del materiale). Questo è ritenuto sufficiente ai sensi della legislazione americana: ma non è affatto sufficiente in Europa, dove esiste una Direttiva Europea (la PED: Pressure Equipment Directive), la quale prescrive che i calcoli di qualunque attrezzatura a pressione siano basati su caratteristiche dei materiali impiegati garantite dal loro fabbricante. Per tale motivo tutte le specifiche europee contengono i valori a caldo che, anche se non sono oggetto di prove particolari, sono automaticamente garantiti dal fabbricante, per il solo fatto di essere contenuti nella specifica prevista dal contratto.
C’è poi un’altra osservazione da fare sulla standardizzazione: e cioè che gli esperti incaricati di redigere gli standard non sempre sono angioletti del paradiso intenti a fare il bene di tutti coloro a cui la standardizzazione si rivolge: molte volte il loro scopo principale è quello di fare gli interessi della sola categoria cui appartengono. Ne volete un esempio, sempre nel campo delle attrezzature in pressione? Prendete le norme TEMA (Tubular Exchanger Manufacturers’ Association) sugli scambiatori di calore a fascio tubiero: vi sembra logico che le casse e i mantelli di qualunque scambiatore in servizio di Raffineria (classe R) fatto di acciaio al carbonio o basso legato e con un diametro superiore a 1016 mm debbano obbligatoriamente avere uno spessore di 13 mm, indipendentemente dalla pressione interna? E che per lo stesso scambiatore sia comunque da prevedere un sovraspessore di corrosione di 3,2 mm, indipendentemente dal contenuto? In norme come questa è evidente l’intenzione dei normalizzatori (appunto i fabbricanti americani di scambiatori di calore) di far lievitare il costo degli apparecchi. Non indaghiamo poi sui motivi per cui le norme ASME (sempre americane) insistono a mantenere un coefficiente di sicurezza elevato sul carico di rottura dei materiali (3,5, contro il 2,4 della EN 13445 e della VSR): l’effetto di questo coefficiente è anche qui quello di far aumentare gli spessori, e non certo nell’interesse della sicurezza, visto che l’effetto di questo coefficiente è quello di livellare la sollecitazione ammissibile rendendola costante con la temperatura (per un acciaio al carbonio, almeno fino a 250°C circa), co sicché, a parità di pressione di progetto, un apparecchio destinato a funzionare a temperatura ambiente ha lo stesso spessore (quindi lo stesso peso e lo stesso prezzo) di un apparecchio che funziona a 250°C. Non sarà per caso perché nei comitati che fanno le norme c’è una forte presenza di esperti inviati delle acciaierie? Il sospetto è quanto meno giustificato.
E’ vero, nella nuova divisione 2 della Sezione VIII (destinata però alla costruzione di apparecchi molto particolari) gli Americani hanno fatto un grosso passo nella direzione delle norme europee (per esempio, il coefficiente di sicurezza sul carico di rottura qui è 2,4, come nelle norme europee, e la pressione di prova è la stessa della Direttiva PED). Resta comunque il fatto che il sistema di standardizzazione americano, pur essendo senza dubbio il più completo, il più coerente e il meglio conosciuto nel mondo, è comunque antiquato: esso è infatti basato sull’impiego massiccio di materiale, e sulla riduzione al minimo dei calcoli e dei controlli non distruttivi; mentre l’industria europea, molto più povera di risorse e di materie prime di quella americana, segue da anni un indirizzo esattamente opposto: aumentare calcoli e controlli allo scopo di ridurre al minimo pesi e costi. Ma nessuna nazione europea (né la Germania, né la Francia, né il Regno Unito, per non parlare dell’Italia) è riuscita fino ad oggi a costruire un sistema altrettanto completo e coerente di quello americano. Solo con la pubblicazione delle Direttive tecniche del cosiddetto “Nuovo Approccio”, implementate dalle norme “armonizzate” di applicazione elaborate dal CEN, gli Europei hanno ora la possibilità di riuscire, lavorando insieme, a creare un sistema alternativo e più moderno di quello americano, che permetta alla loro industria di offrire prodotti più economici, anche se altrettanto e forse più sicuri di quelli costruiti con le norme americane. Un esempio di ciò è dato proprio dalla EN 13445, la norma armonizzata per gli apparecchi a pressione non soggetti alla fiamma: questa norma ha introdotto, per la prima volta, metodi e criteri del tutto nuovi di progettazione, che permettono notevoli economie di peso e quindi di costo rispetto ai vecchi codici nazionali, sia europei che americani.
L’interesse precipuo dell’Europa dovrebbe essere dunque quello di completare al più presto il sistema di norme EN, rendendole coerenti l’una con l’altra (cosa che purtroppo non sempre avviene, data la diversa estrazione nazionale e culturale degli esperti dei vari Comitati Tecnici preposti alla normativa di specifici settori industriali). Questo semplice fatto raramente viene compreso dagli stessi Europei, primi fra tutti (è doloroso dirlo) dai funzionari della Commissione, che, dopo aver finanziato per anni norme tecnicamente avanzate come la EN 13445, un bel giorno hanno deciso non solo di tagliare completamente i fondi, ma addirittura di rifiutarsi di erogare i finanziamenti dovuti per lavori già svolti: cosicché la Sant’Ambrogio, da 19 anni incaricata dall’UNI di portare avanti la segreteria e la presidenza del gruppo di lavoro Calcolo del CEN TC54, responsabile della preparazione della Parte 3 (Design) dello standard, si è vista tagliare circa 20.000 Euro di finanziamenti, con scuse che dimostrano l’assoluta ottusità dei funzionari europei (vi risparmio i dettagli, contenuti tutti in una lettera aperta inviata alla Commissione e allegata alla nostra ultima newsletter in lingua inglese).
Ma non esiste solo l’ottusità dei burocrati di Bruxelles: esistono anche le battaglie di retroguardia, come quella dei Francesi, degli Inglesi e dei Tedeschi che persistono ad usare per gli apparecchi a pressione i loro vecchi codici nazionali (ovviamente riveduti e corretti per tener conto delle prescrizioni della PED, che, com’è noto, pur gratificando le norme armonizzate con la cosiddetta “presunzione di conformità”, ammette comunque l’uso anche di standard diversi). I motivi di questo comportamento (che abbiamo altre volte stigmatizzato) poco hanno a che fare con la sicurezza, e molto con gli interessi particolari dei soggetti che queste norme pubblicano, aggiornandole regolarmente con sostanziosi finanziamenti ai gruppi di esperti che se ne occupano.
E noi? Cosa abbiamo fatto noi in Italia? Anche noi abbiamo dato una ripulita alle nostre vecchie Raccolte ISPESL, completandole (e modificandole, ove possibile, proprio sulla base delle norme armonizzate) attraverso una serie di Raccomandazioni del Comitato Termotecnico Italiano: ma ciò senza alcuna intenzione di farne un business, bensì con quella di creare un ponte verso l’uso generalizzato della EN 13445 e delle altre norme europee armonizzate. Le Raccomandazioni sono pertanto rimaste un lavoro fine a se stesso: dopo l’ultimo aggiornamento del 2005, nessuno è più intervenuto a modificarle, né a tale scopo è stato creato alcun comitato di esperti. Con quale risultato? E’ doloroso dirlo, ma il risultato non è stato quello di spingere verso l’uso delle norme armonizzate: anzi, esistono forti spinte, sia da parte dei grossi utenti della Chimica, della Petrolchimica e dell’Energia, sia da parte di alcuni Organismi Notificati (soprattutto esteri) per sostituire le vecchie raccolte ISPESL con le norme ASME, glissando allegramente sulle difficoltà della loro applicazione in un contesto legislativo assolutamente diverso da quello originale.
Del resto non si può certo dire che in Italia gli enti preposti all’applicazione della normativa comunitaria si siano dati molto da fare per propagandare la norma europea (cosa che non solo dovrebbe essere loro interesse, ma anche un loro preciso dovere): il CTI (Comitato Termotecnico Italiano, ente federato all’UNI che si occupa di tutto ciò che riguarda le attrezzature in pressione) sta ancora conducendo inchieste per stabilire se valga la pena di riprendere il lavoro sulle vecchie Raccolte ISPESL; l’UNI, dal canto suo, non sembra avere la minima intenzione di procedere alla traduzione in Italiano della EN 13445 (cosa che invece è stata fatta per molte altre norme armonizzate, ad esempio quelle dei generatori di vapore), dato l’elevato costo di una simile operazione. Voci di corridoio (non confermate ufficialmente) sussurrano che ad una precisa richiesta fatta dall’Associazione dei costruttori italiani (UCC/ANIMA) l’UNI avrebbe risposto che voleva in cambio la garanzia della vendita di almeno 180 copie… In ogni caso l’UNI per il momento si accontenta di continuare a vendere un CD con la versione inglese, a prezzi assolutamente popolari. E così, mentre esiste già una versione in Finlandese della EN 13445, non ne esiste ancora una versione in lingua italiana, il che costituisce un gravissimo handicap per la diffusione in Italia della EN 13445.
Del resto anche nell’ambiente dei costruttori è difficile convincere la gente che l’interesse di noi Italiani dovrebbe essere quello di proporre, in tutti i casi in cui questo è possibile, l’uso della normativa europea. I costruttori Italiani sono infatti da sempre abituati a lavorare con le norme specificate dai loro clienti, qualunque esse siano: perché dunque darsi tanta pena per promuovere norme nuove che nessuno conosce? Ma se è vero che, nella maggior parte dei casi, sono gli utenti a specificare lo standard da usare, è altrettanto vero che in qualunque paese le associazioni dei committenti non possono non tener conto degli standard che le associazioni dei fornitori raccomandano: basti per tutti l’esempio (già citato) delle norme TEMA, norma elaborata dai fabbricanti di scambiatori, ma specificata a livello mondiale da tutti i grandi utenti degli stessi.
E forse siamo proprio noi Italiani, per il fatto di essere rimasti, fra tutti i paesi europei, quello col maggior numero di aziende costruttrici di apparecchi a pressione, e per non avere oramai alcun codice nazionale da difendere, che avremmo l’interesse a prendere in mano la normativa europea, inviando esperti nei comitati tecnici e nei gruppi di lavoro CEN. Nella EN 13445 esistono ancora punti da completare e problemi da risolvere (cito fra tutti il calcolo al vento e al terremoto delle colonne) per i quali non si riescono a trovare esperti di altri paesi: è chiaro infatti che finché le associazioni industriali di Francia, Germania e Regno Unito continueranno a finanziare l’aggiornamento e lo sviluppo delle loro vecchie norme nazionali, ben difficilmente troveranno i fondi per mandare degli esperti a lavorare nei comitati tecnici CEN che fanno le norme europee. Se fossimo meno individualisti e un po’ più furbi, quei posti cercheremmo di occuparli noi, per indirizzare la normativa europea nella direzione che più ci conviene.
Certo, in Italia esistono problemi assai più importanti delle norme sugli apparecchi a pressione: basta sfogliare qualunque quotidiano per capire che qui da noi ci sono ben altre priorità: il problema delle donnine di Berlusconi, prima di tutto; per non parlare degli immigrati, della sicurezza, della crisi economica, della mafia, della scuola e delle tasse. Ciononostante, mi auguro che tra gli esperti del settore sia ancora possibile avviare una discussione seria sull’argomento.
Quanto all’Europa, possiamo solo sperare che le persone della Commissione preposte al problema trovino il modo di salvare tutto il lavoro fatto dal CEN dal 1990 ad oggi, bloccando quegli egoismi nazionali che hanno finora impedito all’EN 13445 di decollare.
Fernando Lidonnici