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La fatica nelle apparecchiature a pressione: domande ancora in attesa di risposta.

Cos’è la fatica? Se ci poniamo questa domanda, tutti gli ingegneri che lavorano nella progettazione di apparecchiature a pressione daranno sicuramente la risposta corretta: la fatica è quel fenomeno per cui nelle strutture metalliche soggette a carico ciclico, in determinate posizioni, dopo un certo numero di cicli di carico, si genererà una cricca da fatica. Bene, potremmo eventualmente apportare una piccola correzione a questa definizione generale: le posizioni particolari in cui è possibile l’inizio di una cricca di fatica non sono le stesse per le strutture saldate e per quelle non saldate: per le strutture non saldate la cricca può iniziare nei punti in cui uno spigolo vivo o una brusca variazione di forma sta causando quella che generalmente chiamiamo una concentrazione di sollecitazioni, cioè un aumento significativo della tensione locale causata dai carichi; mentre per le strutture saldate i difetti certamente contenuti nelle saldature (in misura maggiore o minore, a seconda del tipo di saldatura) costituiscono di per sé una singolarità di forma in grado di generare localmente una concentrazione di sollecitazioni.

Ma siamo sicuri che il termine “concentrazione di sollecitazioni” sia davvero applicabile a tutte le possibili situazioni? Naturalmente, le semplici formule contenute nelle norme di calcolo dei recipienti a pressione non sono sempre in grado di rilevare queste concentrazioni di sollecitazioni; quindi, l’unico mezzo a nostra disposizione è la stress analysis eseguita con metodi numerici: i cosiddetti calcoli agli elementi finiti. Ebbene, sebbene siano stati fatti notevoli progressi nei programmi per computer in grado di effettuare tali calcoli, la grande maggioranza di essi viene in realtà ancora eseguita utilizzando il classico modello elastico lineare: ovvero un approccio in cui si suppone che il comportamento elastico del materiale (sollecitazioni sempre proporzionali alle deformazioni) esista anche oltre il limite fisico dato dal limite di snervamento del materiale. Ma cosa succede nei punti in cui le sollecitazioni sono al di sopra di questo limite, o meglio, quando il computer ci dice che sono al di sopra di questo limite?

È chiaro che, nei materiali duttili, con particolare riferimento agli acciai al carbonio e basso-legati, non possono esistere tensioni superiori al limite di snervamento: perché, quando il materiale è arrivato al limite di snervamento, con un ulteriore aumento dei carichi esterni, si verificheranno deformazioni permanenti, per cui non si otterranno concentrazioni di tensioni, ma, più esattamente, concentrazioni di deformazioni, non rilevabili dai classici programmi agli elementi finiti basati sull’analisi elastica. In ogni caso tutte le norme che trattano i calcoli a fatica contengono “curve di fatica” (cioè, curve che danno il numero ammissibile di cicli possibili con un certo valore dello “stress range“, dove per stress range – in alcune norme è chiamato “deltasigma“, in altre norme “alternating stress” – intendiamo la differenza tra la sollecitazione massima e quella minima in un ciclo). Il problema è che tali curve sono sempre state determinate utilizzando l’approccio completamente elastico; e solo in alcune norme più recenti è stata fatta una netta distinzione tra curve per componenti non saldati e curve per diverse classi di componenti saldati.

Un’altra domanda è la seguente: qual è il significato del numero di cicli che dovremmo trovare alla fine della nostra stress analysis? È il numero di cicli previsto solo per l’inizio di una cricca, o il numero di cicli previsto per la propagazione della cricca attraverso l’intero spessore del nostro componente? In questo caso c’è una notevole differenza tra strutture non saldate e strutture saldate, in particolare per quelle saldature che hanno maggiori probabilità di contenere un numero maggiore di difetti. Tutti sanno che le saldature migliori sono quelle realizzate con una ripresa al rovescio, perché la passata al rovescio causerà la fusione della radice della saldatura realizzata sul lato opposto, e quindi la scomparsa di tutti i difetti che sono generalmente contenuti alla radice della prima saldatura. Pertanto, una saldatura longitudinale di testa in una virola cilindrica, eventualmente molata a filo su entrambi i lati, è sicuramente meno soggetta a fatica rispetto alla saldatura a penetrazione parziale di un bocchello: in quest’ultimo caso si può supporre che ognuno dei difetti contenuti nella radice della saldatura sia già un possibile inizio di cricca, riducendo così notevolmente il numero di cicli di carico necessari alla propagazione della cricca attraverso l’intero spessore del componente.

Tuttavia, la distinzione tra diverse classi di saldatura non è l’unica differenza tra le diverse norme che trattano le apparecchiature a pressione. Altre differenze sono dovute al tipo di stress da prendere in considerazione per il calcolo dello stress range: alcune norme utilizzano lo “structural stress“, ovvero la sollecitazione complessiva di membrana e di flessione sull’intero spessore, escludendo quindi i picchi: altre norme utilizzano la sollecitazione totale comprensiva del “peak stress”, o il cosiddetto “hot-spot stress“. Ma il significato di queste definizioni non è lo stesso nelle diverse norme, per cui, anche partendo dalla stessa analisi agli elementi finiti, effettuata con gli stessi metodi (analisi elastica lineare completa o analisi limite), si otterranno risultati diversi utilizzando diversi codici di calcolo per apparecchiature a pressione.

I progettisti di recipienti a pressione sono abituati a valutare la correttezza dei loro calcoli sulla base dei coefficienti di sicurezza, cioè sulla base del rapporto tra la sollecitazione ammissibile (se si preferisce la definizione europea, la sollecitazione nominale di progetto) e la sollecitazione effettivamente calcolata con le formule. Ma quando si ottiene un numero di cicli da una curva di fatica, qual è il coefficiente di sicurezza? Guardando un po’ nella letteratura, si scoprirà che, a seconda della norma, il coefficiente di sicurezza teorico sulla variazione di sollecitazione è compreso tra 1,5 e 2, mentre il coefficiente di sicurezza sul numero di cicli è variabile tra 10 e 20: il che significa che, se il calcolo indica che la struttura è in grado di resistere a 1000 cicli, probabilmente si verificherà un danno da fatica quando si raggiungeranno 10000 o 20000 cicli. Ma in genere le norme non specificano il tipo di danno: si tratta di un coefficiente di sicurezza sull’inizio di una cricca o di un coefficiente di sicurezza sulla fase finale della cricca, cioè sul numero di cicli che causeranno la propagazione della stessa attraverso l’intero spessore del componente?

A volte ho incontrato costruttori che fabbricano recipienti funzionanti normalmente con carichi ciclici, perché vengono accesi e spenti più volte al giorno, come le autoclavi di sterilizzazione o altri recipienti soggetti a un servizio batch. Bene, la maggior parte di loro era sinceramente convinta che i loro recipienti non avessero mai subito una cricca di fatica, anche se, dando solo una rapida occhiata al disegno, mi sono reso conto che non avevano mai prestato molta attenzione nell’evitare spigoli vivi o saldature parzialmente penetrate: ma probabilmente per loro una cricca per fatica diventa una vera cricca solo quando causa una perdita ben identificabile del contenuto del recipiente verso l’atmosfera.

Un’altra cosa su cui le norme sui recipienti a pressione danno prescrizioni diverse sono le regole da usare per la determinazione della necessità di un’analisi di fatica. Ad esempio, le ASME Sezione VIII divisione 2 usano i cosiddetti screening criteria, ovvero una serie di informazioni che l’utente deve trasferire al costruttore per stabilire se è necessaria o meno un’analisi di fatica (avendo letto questi criteri, penso che ci vorrebbe meno tempo nell’eseguire l’analisi delle sollecitazioni che nel reperire le informazioni necessarie per la loro applicazione). Al contrario, almeno per i casi in cui il ciclo è dovuto solo alla pressione (e quindi le sollecitazioni sono direttamente proporzionali alla pressione, così che lo stress range è uguale alla sollecitazione massima), le norme europee generalmente danno formule semplici basate su un numero equivalente di cicli, dove per numero equivalente di cicli intendono una cifra relativamente bassa (500 o 1000) moltiplicata per il cubo del rapporto tra la pressione di esercizio massima ammissibile la variazione di pressione; formule più complicate sono generalmente date per i casi in cui i cicli sono dovuti anche alla temperatura.

Le norme europee offrono tuttavia generalmente un’alternativa alla progettazione mediante analisi: ovvero un metodo semplificato per trovare le concentrazioni di sollecitazione utilizzando un fattore di concentrazione da moltiplicare per la sollecitazione strutturale calcolata con le semplici formule del codice: ci sono tabelle che forniscono questi fattori per tutti i possibili componenti, tenendo conto anche del tipo di giunto saldato e anche della classe di saldatura da considerare. Tali procedure sono generalmente più conservative delle procedure basate sulla stress analysis, ma sono un’importante semplificazione per tutti i casi in cui non è necessaria una grande precisione nel calcolo del numero di cicli ammissibile.

Ma allora, supponendo di aver già risolto il problema di determinare il numero ammissibile di cicli di carico per un dato recipiente, c’è un ulteriore problema, questa volta non per il progettista, ma certamente per l’utilizzatore: come è possibile registrare il numero di cicli di carico applicati al recipiente per determinare il momento in cui dovrebbe essere messo fuori servizio? Perché, quando diciamo che un recipiente è soggetto a fatica, è chiaro che la sua vita sarà terminata quando avrà raggiunto il numero di cicli di carico specificato in fase di progettazione. Ciò naturalmente significa che il recipiente deve essere monitorato in servizio, esattamente come i recipienti che operano in condizioni di scorrimento viscoso: il problema è che questo monitoraggio è certamente possibile per i grandi recipienti che lavorano in impianti chimici, petrolchimici o energetici, dove gli utilizzatori effettuano registrazioni regolari di pressione e temperatura insieme alle relative fluttuazioni; ma dubito fortemente che le piccole autoclavi di sterilizzazione che operano in ospedali o in studi medici, che vengono accese e spente più volte al giorno, siano soggette a un sistema di monitoraggio in grado di contare il numero di cicli di carico durante la loro vita utile.

Se vogliamo aggiungere un ulteriore problema, dobbiamo considerare l’origine di tutte le curve di fatica utilizzate nelle più importanti norme sul calcolo dei recipienti a pressione. Naturalmente, queste curve sono il risultato di un qualche tipo di test, magari eseguito diversi anni fa, su provini di varie dimensioni e forme, in cui le sollecitazioni sono state calcolate mediante semplici formule o mediante un’analisi delle sollecitazioni completamente elastica, i cui risultati sono quindi forniti in termini di sollecitazioni, a volte, come già detto, superiori al limite di snervamento del materiale. Pertanto, le curve di fatica fornite nelle diverse norme, insieme al diverso tipo di stress range da immettere nelle curve di fatica, potrebbero portare a risultati diversi in termini di numero di cicli ammissibile. Il che, ovviamente, non è un problema se il fattore di sicurezza sul numero di cicli di carico è 10 o 20, come spiegato sopra.

C’è dell’altro? Scusate, ho dimenticato qualcosa: le curve utilizzate negli standard dei recipienti a pressione sono solitamente realizzate supponendo che non ci si trovi in ​​un ambiente corrosivo: perché in questo caso è la corrosione che può causare, o accelerare, l’inizio di una cricca di fatica.

Come avrete certamente capito, il calcolo a fatica è ancora un argomento aperto, in cui una certa quantità di studi teorici e sperimentali potrebbero essere utili per arrivare ad una trattazione più esauriente di questo complesso fenomeno. Nel frattempo, cosa possiamo consigliare ai poveri progettisti? Una raccomandazione molto semplice è la seguente: non cercate di mescolare insieme norme diverse: scegliete semplicemente quella imposta dal vostro cliente o dalla legislazione locale, e seguite attentamente tutte le sue prescrizioni: e quando è richiesta un’analisi delle sollecitazioni, fate attenzione a scoprire tutte le possibili fonti di sollecitazioni cicliche, tenendo conto che le fluttuazioni di temperatura sono più pericolose delle fluttuazioni di pressione. Non dimenticate mai che nei problemi di fatica ciò che è veramente pericoloso non è la sollecitazione in sé (sia essa termica o meccanica), ma la sua fluttuazione: molto facile da trovare quando si ha un ciclo di pressione (tutte le sollecitazioni proporzionali alla pressione, nessun cambiamento nella loro direzione durante il ciclo), più difficile quando si ha un ciclo di temperatura, perché in questo caso le sollecitazioni cambiano non solo di intensità, ma anche di direzione. E quando avrete finalmente trovato un numero di cicli, non dimenticate mai di comunicare questo numero all’utente e raccomandategli di predisporre un sistema di monitoraggio idoneo ad avvisarlo che, raggiunto questo numero, la vita dell’apparecchio è finita.

 

Fernando Lidonnici

                                                                                   Convenor del WG53/CEN TC54

    Milano, 16 Novembre 2024