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Luci ed ombre della standardizzazione in Europa

Le direttive tecniche pubblicate in Europa negli ultimi anni hanno dato una forte spinta alla creazione di un sistema integrato di standard europei capace finalmente di competere ad armi pari col sistema americano. Nessuno dei sistemi di standardizzazione esistenti nei vari paesi dell’Unione può, infatti, vantare la coerenza e la completezza del sistema americano: il quale è spesso intervenuto in passato, ed interviene spesso ancora oggi, a colmare le lacune esistenti nei sistemi nazionali di paesi come l’Italia, la Francia e il Regno Unito, in misura minore della Germania.

Per citare solo qualche esempio relativo al settore della Caldareria, sia in Italia che in Francia che nel Regno Unito alcuni standard ASTM relativi agli acciai sono ancora oggi di uso comune (tubi in A 106 grado B, fucinati in A 105, bulloneria in A 193 B7); lo stesso accade per gli standard relativi alle saldature (norme AWS) e per quelli relativi ai controlli NDT (norme ASNT). L’industria impiantistica europea, se vuole vendere fuori dall’Europa, è perciò normalmente costretta ad adottare gli standard americani (norme ASME/ASTM per i materiali, norme TEMA per gli scambiatori di calore a fascio tubiero, norme ANSI per le flange e le tubazioni, norme UBC per le costruzioni civili, e così via).

Ma in che cosa questo fatto costituisce uno svantaggio per l’industria impiantistica europea? Se si analizzano in dettaglio gli standard americani, ci si rende conto che essi corrispondono (cosa del resto logica) alle esigenze particolari dell’industria U.S.A.: un’industria cioè, che, al contrario dell’industria europea, non ha mai avuto carenza di materie prime, e per la quale quindi la minimizzazione dei costi (che è uno dei motivi alla base dell’adozione di un sistema di standardizzazione) non passa tanto attraverso un risparmio di materiale, quanto piuttosto attraverso uno snellimento delle procedure, sia di quelle relative ai calcoli, che di quelle relative ai controlli.

Per fare un esempio nel campo della Caldareria, le norme ASME Sezione I (caldaie) e Sezione VIII divisione 1 (apparecchi a pressione non soggetti alla fiamma) prescrivono per gli acciai una sollecitazione ammissibile non superiore al carico di rottura a freddo diviso per 3,5. Questo  fa  sì  che  per  i  materiali  più  comuni  (acciai  al  carbonio  e  debolmente  legati)  la sollecitazione ammissibile resti praticamente identica al variare della temperatura da quella ambiente sino a circa 250°C: cosa assai comoda per chi fa i calcoli (quanto meno se si pensa all’epoca in cui i calcoli si facevano col regolo), anche se porta, com’è ovvio, a surdimensionare tutti gli apparecchi destinati a funzionare a temperature inferiori a 250°C. Questa abbondanza di spessore permette, d’altro canto, di limitare i controlli NDT sulle saldature, o quanto meno di adottare dei criteri più permissivi per l’accettabilità dei difetti nelle stesse. E permette inoltre di mantenere basse altre caratteristiche degli acciai, come il limite elastico a temperatura ambiente o la resilienza a bassa temperatura.

Se poi si fa riferimento alle norme TEMA sugli scambiatori di calore a fascio tubiero, la tendenza ad abbondare nel materiale risulta ancora più evidente: si pensi ad esempio al sovraspessore di corrosione di 3,2 mm imposto a tutti gli scambiatori di classe R (dove R sta per “Refinery”, anche se molti dei fluidi usati in raffineria sono tutt’altro che corrosivi). Oppure allo spessore minimo delle lamiere, da mantenere comunque almeno pari ad un valore prestabilito, indipendentemente dallo spessore richiesto dal calcolo per la pressione interna (il che porta, tanto per fare un esempio, ad adottare uno spessore minimo di 13 mm in apparecchi in acciaio al carbonio aventi un metro di diametro). Anche qui, l’intento è uno solo: abbondare negli spessori per avere apparecchi che possano sopportare senza problemi maltrattamenti di ogni tipo.

Ma se questo ha un senso per gli apparecchi a fascio estraibile quando il fascio, come spesso accade in raffineria, si incolla praticamente al fasciame a causa della presenza di residui di prodotto allo stato semisolido, non si vede la necessità di imporre i 13 mm anche per gli apparecchi a piastre tubiere fisse, dove l’esigenza di estrarre il fascio non esiste proprio.

E che dire delle flange delle tubazioni, dove le flange ANSI/ASME sono di impiego ormai generale nel mondo della petrolchimica, mentre in ambiti differenti, sia in Germania che in Italia, vengono spesso usate flange secondo norme DIN (o secondo norme UNI, equivalenti alle DIN), sensibilmente più leggere, a parità di classi di pressione, delle altre? Ciò accade perché i criteri alla base dei due sistemi di standardizzazione sono anche qui differenti: le flange ANSI/ASME  sono  flange  capaci  di  essere  maltrattate,  stringendole  eventualmente a  morte quando non tengono: le flange UNI o DIN sono flange che richiedono, per tenere la pressione, una miglior finitura nella lavorazione delle sedi di guarnizione, e una stretta dei tiranti controllata mediante chiave dinamometrica; ma che comunque le flange DIN o UNI non possano andar bene anche nell’industria petrolchimica, quando usate conformemente ai criteri suddetti, è cosa ancora da dimostrare.

L’entrata in vigore di una serie di direttive “Nuovo Approccio”, con la relativa creazione di una serie di norme CEN cosiddette “armonizzate” (tali cioè da garantire la “presunzione di conformità” alla direttiva o alle direttive di prodotto applicabili), obbliga comunque ad un ripensamento sui  criteri ai quali dovranno logicamente adeguarsi i nuovi standard europei. Già nell’ultima newsletter avevamo posto l’accento sulla difficoltà di garantire la conformità alla direttiva PED (=Pressure Equipment Directive) di apparecchi costruiti secondo le norme ASME americane, senza modifiche sostanziali ai criteri posti a base di tali norme, o quanto meno senza l’integrazione di prescrizioni aggiuntive essenziali (ad esempio, garanzia del fabbricante sulle caratteristiche a caldo e a freddo dei materiali, non richiesta nei materiali ASME, ma imposta dalla PED). Per comprendere la difficoltà dell’utilizzo di standard americani nel contesto della PED, basta pensare che negli U.S.A. la conformità ai minimi dettagli dello standard e alla “User’s  Design Specification” è sufficiente a garantire la sicurezza dell’apparecchio: ciò limita pertanto la responsabilità del costruttore al rispetto dei suddetti documenti. In Europa, al contrario, la garanzia del costruttore è praticamente illimitata, dovendo questi  assicurare non  il  rispetto di  uno  standard particolare, bensì  il rispetto dei  cosiddetti “principi essenziali”, il più importante dei quali è la redazione di una dettagliata “analisi dei rischi”, specifica per ogni apparecchio, nella quale egli dimostri di aver tenuto conto di tutte le possibili condizioni in cui l’apparecchio stesso si troverà in futuro ad operare, siano esse di progetto, operative, eccezionali, di prova, di trasporto, di montaggio o di manutenzione.

Ciò  implica,  ovviamente,  un’analisi  molto  più  dettagliata,  che  fa  di  ogni  componente  in pressione un caso particolare, con un lavoro molto maggiore da intraprendere sia nella fase del progetto iniziale, sia in quella dei controlli sul prodotto finito; analisi e controlli che non possono essere sostituiti, come spesso avviene negli standard americani, dall’uso di un maggior peso di materiale.

Gli Americani stessi si sono ormai resi conto che sono queste le problematiche legate alla nascita delle nuove direttive europee, e che forse quello che è vero per l’industria europea comincia ad essere altrettanto vero anche per la loro industria; ormai da tempo si sta infatti manifestando nella normativa U.S.A. la tendenza alla diminuzione dei pesi e degli spessori: già qualche anno fa il coefficiente di sicurezza sul carico di rottura a freddo delle Sezioni I e VIII divisione 1 del Codice ASME era stato abbassato da 4 a 3,5; nel gennaio 2008 va poi in vigore la nuova edizione della Sezione VIII divisione 2, sostanzialmente rifatta rispetto all’edizione precedente. In questa nuova edizione molte idee sono state prese dalla nostra EN 13445, come la pressione di prova idraulica (la stessa della PED), le sollecitazioni ammissibili dei materiali (coefficiente di sicurezza sulla rottura a freddo portato da 3 a 2,4), l’introduzione dell’analisi limite nel “Design by Analysis”, la sostanziale modifica del capitolo sulla fatica, molto più allineato ora alle norme europee.

In pratica, con questa progressivo allineamento dei loro standard alle norme armonizzate, gli Americani  riconoscono  implicitamente  che  è  tempo  anche  per loro  di  abbandonare  alcuni concetti, oramai obsoleti, su cui fino ad ora tutto il loro sistema di standardizzazione si basava. Ma gli Europei se ne stanno rendendo conto?

La pervicace insistenza a mantenere in vita i vecchi codici nazionali sugli apparecchi a pressione non soggetti alla fiamma in paesi come la Francia (CODAP 2000), la Germania (AD 2000) e il Regno Unito (PD 5500) fa pensare che, in effetti, non se ne rendono conto affatto. O che, in alternativa, esistono in quei paesi gruppi o associazioni interessate al mantenimento e allo sviluppo ulteriore dei vecchi codici. Difatti, al contrario di quanto è avvenuto in Italia con le Raccolte ISPESL (che, dopo la pubblicazione delle Raccomandazioni CTI per il loro ulteriore impiego in ambito PED, non vengono più aggiornate né dall’ISPESL, né dal CTI né da altri organismi o associazioni), esistono nei paesi sopra menzionati gruppi di lavoro preposti all’ulteriore sviluppo e all’aggiornamento dei relativi codici. Ma la cosa più sorprendente è che questi esperti, finanziati dalle locali associazioni industriali, sono spesso gli stessi che hanno già lavorato (con i finanziamenti della Commissione Europea) allo sviluppo della EN 13445, cioè proprio della norma armonizzata che, nelle intenzioni della Commissione, avrebbe dovuto sostituire in Europa tutti i codici nazionali relativi agli apparecchi a pressione non soggetti alla fiamma. Le associazioni nazionali mettono dunque a disposizione senza problemi i finanziamenti necessari all’ulteriore sviluppo dei vecchi codici, ma non sono invece disponibili a finanziare gli stessi esperti quando questi lavorano per la normativa europea!

E’ chiaro quindi che il taglio dei finanziamenti da parte della Commissione rende sempre più difficile il progredire degli standard europei.

Ma se questo della sopravvivenza delle vecchie norme nazionali è un problema specifico dei soli apparecchi a pressione, vi è ancora da osservare che i criteri seguiti dalle diverse norme armonizzate relative agli altri prodotti ricadenti nella direttiva PED non sono univoci, e risentono molto spesso delle idee particolari o della particolare formazione tecnica del presidente e degli esperti dei diversi Comitati Tecnici preposti alla loro elaborazione. Succede poi abbastanza di frequente che i campi di applicazione di norme differenti si sovrappongano, sicché uno stesso prodotto può essere calcolato secondo standard differenti, come accade ad esempio per i serbatoi di GPL o per gli apparecchi criogenici, per i quali esistono norme specifiche, simili, come impostazione, all’EN 13445, ma che, in pratica, danno luogo a differenze spesso sensibili nel dimensionamento e nei controlli.

Si fa pertanto sempre di più sentire la necessità di un coordinamento centrale che detti criteri univoci per tutti i TC interessati a determinate problematiche (in particolare quelle poste dalla direttiva PED): spesso questo coordinamento non viene fatto per motivi che con la tecnica hanno poco a che fare, e che riguardano soprattutto il bilanciamento delle competenze sui vari TC tra gli organismi di standardizzazione più potenti (BSI, DIN e AFNOR).

Saranno gli Europei dei diversi Stati abbastanza intelligenti da comprendere che è giunto il momento di sacrificare i loro meschini interessi di bottega a un comune interesse della loro industria?

 Fernando Lidonnici