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Progettare un apparecchio a pressione in presenza di altri carichi

I meno giovani dei nostri lettori ricorderanno certamente le procedure che si usavano un tempo in Italia per progettare e costruire un apparecchio a pressione o un generatore di vapore: negli anni 60 (quindi circa 50 anni fa) avevamo un volumetto, edito nel 1953 dall’ANCC (Associazione Nazionale per il Controllo della Combustione), intitolato “Proposta di Nuova Regolamentazione” (brevemente: PNR 53) che spiegava tutto sull’argomento.

A dir la verità, visto alla luce della moderna normativa, quel libretto era piuttosto carente: infatti conteneva solo qualche formulina per il calcolo dei fasciami e dei fondi, ignorava completamente le flange e le piastre tubiere degli scambiatori, e sui rinforzi di apertura consigliava semplicemente di aumentare del 10% lo spessore di parete per tener conto della presenza eventuale di un’apertura: sui materiali e sulle saldature diceva poco o niente, e nulla del tutto per i carichi diversi dalla pressione (vento, terremoto, carichi dovuti ai supporti ed alle tubazioni, carichi ciclici, dilatazioni termiche, ecc.).

Quando tuttavia il progredire della tecnica e della normativa ci impose il pensionamento della PNR, l’ANCC (ente parastatale che aveva allora, per legge, il monopolio del collaudo degli apparecchi a pressione e dei generatori di vapore) elaborò, con l’ausilio di Commissioni tecniche alle quali partecipavano anche costruttori e utenti, le cosiddette “Raccolte”: VSR (=Verifica di stabilità recipienti), VSG (=Verifica di Stabilità Generatori), M (=Materiali), S (=Saldature), E (=Esercizio): un vero e proprio codice di costruzione contenente anche le norme per le verifiche in esercizio, a immagine e somiglianza dei codici di altri paesi tecnologicamente avanzati. Le Raccolte tuttavia, dal punto di vista della progettazione, contenevano ancora poco per ciò che riguardava i carichi diversi dalla pressione: tanto che l’ANCC (confluita poi nell’ISPESL all’inizio degli anni 80) sentì il bisogno di richiedere ad ogni costruttore la certificazione (più volgarmente: la firma) del progetto da parte di un professionista abilitato: il progettista doveva infatti sottoscrivere una dichiarazione con la quale non solo elencava tutti gli altri possibili carichi spiegando in quale modo e secondo quali norme ne aveva tenuto conto, ma doveva nel contempo dichiarare di essere a conoscenza del fatto che la responsabilità (prima dell’ANCC, poi dell’ISPESL) terminava con la verifica della conformità alle Raccolte dei calcoli e della costruzione.

Bisogna dire che le verifiche dell’ente di controllo, da fare ovviamente sulla base delle Raccolte, erano molto fiscali: ogni dettaglio delle stesse doveva essere scrupolosamente osservato, pena il rifiuto dell’approvazione con conseguenti ritardi e penalità a carico del povero costruttore; situazione che la trasmigrazione nell’ISPESL del personale ex-ANCC non contribuì certo a migliorare: l’ISPESL era infatti un ente interamente statale, e quindi vincolato per legge a tutte le più oscene procedure burocratiche con cui i governi italiani di qualsivoglia colore politico si sono sempre sadicamente divertiti ad affliggere i cittadini. Anzi: quella trasmigrazione comportò di fatto il blocco della normativa, elevando le Raccolte al rango di norme di legge, modificabili solo a fronte di un Decreto Ministeriale congiunto di ben tre ministeri (Industria, Sanità e Lavoro). Di fronte a tutto ciò la considerazione dei carichi diversi dalla pressione, con relativa dichiarazione del progettista abilitato, non poteva che passare in secondo piano rispetto alle verifiche di legge riguardanti la sola pressione: in effetti sulle verifiche relative agli altri carichi ci si limitava spesso a una valutazione di massima, basata più sulle sensazioni che non sui calcoli veri e propri, sapendo comunque che ben raramente qualcuno avrebbe fatto un controllo.

Tuttavia nell’anno 2002 è intervenuta la PED (=Pressure Equipment Directive, ovvero Direttiva Attrezzature in Pressione) a far giustizia del nostro e di altri sistemi nazionali altrettanto contorti e farraginosi. La PED infatti, se da un lato ha diminuito l’importanza del rispetto pedissequo di una normativa specifica sulla pressione (che oggi può essere fatta sulla base delle norme EN cosiddette “armonizzate”, ma può anche avvenire secondo norme diverse, sempre nel rispetto dei “Principi Essenziali di Sicurezza” della direttiva), dall’altro ha posto l’accento sull’analisi dei rischi a cui l’apparecchiatura sarà soggetta durante tutta la sua vita utile, analisi che ora viene messa completamente a carico del costruttore, obbligato pertanto a considerare con maggiore attenzione anche i carichi dovuti al vento, al sisma, alla neve e così via. Ma qui nascono una serie di problemi pratici, che cercheremo di spiegare più in dettaglio nel seguito, con l’unico intento di far comprendere ai progettisti quanto meno le difficoltà di questo nuovo punto di vista.

Molti dei carichi cosiddetti “aggiuntivi” sono sempre stati oggetto di altre normative: peso proprio, peso “vivo” (ossia quel peso che potrebbe esserci ma non è detto che ci sia, come il carico del personale su una passerella), peso della neve, carico del vento, accelerazione sismica, ecc. sono infatti i carichi tipici da considerare nel progetto delle strutture civili, la cui normativa si è anch’essa evoluta nel tempo. Prima ancora della PED è infatti intervenuta in Europa un’altra direttiva, quella dei Prodotti da Costruzione, che ha anche lei generato, come la PED, una serie di norme EN armonizzate, i cosiddetti “Eurocodici” (EN 1990 e seguenti). A differenza di quanto è avvenuto per le norme riguardanti la pressione, la filosofia su cui si basano gli Eurocodici ha però assai poco a che fare con la normativa americana corrispondente: negli USA infatti sia le norme ASCE (=American Society of Civil Engineers) sia le norme IBC (=International Building Code) basano i calcoli di stabilità sull’approccio tradizionale della scienza delle costruzioni (confronto delle sollecitazioni con una sollecitazione ammissibile), mentre gli Eurocodici usano il metodo dei “coefficienti di sicurezza parziali“, cioè frazionano il coefficiente di sicurezza in due fattori: uno (diverso per i diversi carichi) con cui viene maggiorato il carico di progetto, e un altro (dipendente invece solo dal tipo di materiale) con il quale viene divisa la caratteristica del materiale considerata significativa ai fini della resistenza.

Una prima difficoltà sorge quindi dalla necessità di integrare tra loro la filosofia seguita nei calcoli per la pressione e quella seguita nei calcoli strutturali. La cosa è ulteriormente complicata dal fatto che molti paesi europei hanno delle loro normative di sicurezza per le strutture civili, spesso vincolanti per legge, che, pur basandosi sugli Eurocodici, ne forniscono tuttavia un’interpretazione lievemente differente: in Italia abbiamo ad esempio le “Norme Tecniche sulle Costruzioni” del 2008 (brevemente NTC 2008), norma che però è attualmente in corso di revisione. Un’integrazione con gli Eurocodici è stata tentata nella norma armonizzata per gli apparecchi a pressione (EN 13445.3), Annesso B: qui ci si basa, come con gli Eurocodici, sul metodo dei coefficienti parziali, rischiando tuttavia di non trovarsi in perfetta conformità con le NTC 2008. Da notare comunque che i principi contenuti nell’Annesso B sono stati di recente introdotti nel nuovo capitolo 22 (“Apparecchi a pressione alti”) presente, per la prima volta, nell’edizione 2014 della norma.

Una seconda difficoltà è data dalla combinazione dei carichi tra loro. Questo problema si presenta infatti per la prima volta quando alla pressione vanno aggiunti anche carichi di tipo differente, che, al contrario della pressione (ed eventualmente del peso proprio della struttura), sono presenti solo saltuariamente, o sono comunque variabili: esempi di tali carichi sono il carico della neve (presente solo d’inverno e comunque di entità variabile a seconda delle condizioni meteo) e il carico del vento, anch’esso dipendente dalle condizioni meteo e la cui intensità massima va vista in un’ottica di tipo probabilistico: se cioè uno dei carichi variabili è presente alla sua massima intensità, la probabilità che anche gli altri carichi variabili coesistano con il primo tutti quanti con la massima intensità possibile è praticamente nulla. Tanto per fare un esempio, se una colonna di distillazione è dotata di una passerella con una capacità di carico di 250 kg/m2 e si trova in una zona in cui la massima pressione del vento prevista è di 1400 N/m2, la probabilità che quella colonna si trovi contemporaneamente alla pressione interna massima di progetto, con la passerella caricata effettivamente da un peso pari alla sua capacità massima, e che contemporaneamente sia anche soggetta al vento massimo previsto dalle norme, è praticamente nulla; se tuttavia si intende considerare tra le possibili condizioni di progetto quella in cui la passerella viene caricata al 100%, bisognerà decidere qual è il “coefficiente di combinazione” da assegnare agli altri carichi variabili che potrebbero infatti essere contemporaneamente presenti, tuttavia, secondo logica, ad un livello di intensità più basso. Sia gli Eurocodici che le NTC prevedono infatti opportune tabelle con i “coefficienti di combinazione” applicabili per i vari casi.

Si noti che, nel caso specifico degli apparecchi a pressione, la cosa è ulteriormente aggravata dalla presenza eventuale di carichi localizzati sui bocchelli, per i quali la società di ingegneria committente non ha specificato i valori effettivi, ma solo quelli massimi di alcune componenti di carico, senza tuttavia specificarne la direzione: se ora immaginiamo che quella stessa colonna di distillazione sia dotata di 50 bocchelli, e che su ciascuno di essi sia presente una delle componenti al massimo valore specificato e orientata in tutti e 50 i bocchelli nella stessa direzione, gli effetti a livello locale (cioè in prossimità del bocchello) sarebbero probabilmente sostenibili, ma il carico complessivo che ne risulterebbe sui supporti della colonna sarebbe enorme, e comunque assolutamente irrealistico.

A questo si aggiunge il fatto che alcuni carichi potrebbero avere un effetto favorevole rispetto ad altri: una colonna soggetta al vento si comporta infatti come una trave di forma cilindrica (o per meglio dire tubolare) incastrata alla base, con un momento flettente massimo in corrispondenza della base stessa e che va progressivamente diminuendo con l’altezza: questo momento andrà a sollecitare in trazione le fibre longitudinali che si trovano sopravvento, e in compressione quelle sottovento, sottoponendo le prime al rischio di un superamento del limite elastico del materiale, e le seconde a quello di instabilità dell’equilibrio (più volgarmente: cedimento per carico di punta). Ma se all’interno della colonna vi è una pressione che tende a farne aumentare il volume, alle sollecitazioni longitudinali generate dal vento andranno a sommarsi algebricamente quelle dovute alla pressione interna, aggravando pertanto il rischio di un superamento del limite elastico nelle fibre sopravvento, ma mitigando il rischio di cedimento per instabilità dell’equilibrio in quelle sottovento: nel primo caso è perciò ragionevole attribuire il massimo valore possibile alla pressione interna, ma nel secondo tale valore dovrà essere invece diminuito o, al limite, posto uguale a 0.

Un caso particolare di carichi variabili sono poi quelli cosiddetti “eccezionali“, in particolare i carichi sismici, quelli cioè che hanno una bassissima (ma ben determinata) probabilità di verificarsi in un “periodo di ritorno” convenientemente lungo, ma che, qualora si verificassero, dovrebbero comunque garantire la resistenza della struttura quanto meno rispetto al suo “stato limite ultimo” (quello degli stati limite è un altro dei concetti “nuovi” introdotti negli Eurocodici e tipici più che altro delle costruzioni civili: esistono stati limiti di esercizio, che non vanno superati se si vuole che una struttura rimanga operativamente utilizzabile, e stati limite ultimi, che invece devono garantire che la struttura non collassi o quanto meno non metta a rischio la vita umana). Anche qui, tanto per fare ancora un esempio, una colonna di distillazione contenente un fluido potenzialmente pericoloso secondo le NTC 2008 va calcolata rispetto al sisma con riferimento ad un ipotetico terremoto avente la probabilità del 5% di verificarsi in un tempo di ritorno di 1472 anni.

Nell’ottica delle norme NTC, in un apparecchio in acciaio al carbonio una condizione di carico non eccezionale in cui fossero presenti solo la pressione interna di progetto assieme al peso proprio andrebbe esaminata con un coefficiente di sicurezza parziale rispetto ad entrambi i carichi di 1,3 e con un coefficiente di sicurezza parziale rispetto alla proprietà limite del materiale di 1,05; EN 13445.3 suggerisce invece rispettivamente 1,2 e 1,25, il che, alla fine, corrisponde a un coefficiente complessivo di 1,2 x 1,25 = 1,5, ossia al classico coefficiente di sicurezza rispetto al limite elastico adoperato da quasi tutti gli standard relativi ad apparecchi a pressione, quindi globalmente più conservativo di quello complessivo previsto in NTC (1,3 x 1,05 = 1,365). In una condizione eccezionale (peso proprio + terremoto) i coefficienti di sicurezza scendono rispettivamente ad 1 e ad 1,05 in entrambe le norme.

Questa storia del doppio coefficiente di sicurezza può in effetti causare un po’ di confusione, specialmente in chi è abituato ad utilizzarne uno solo, per dividere una caratteristica del materiale onde ricavare una sollecitazione ammissibile da confrontare con quella generata dal carico di progetto: per capirla, basterà riflettere che diminuire percentualmente il coefficiente di sicurezza sul materiale aumentando della stessa percentuale il carico di progetto è più o meno la stessa cosa, almeno sino a che ci troviamo in campo elastico (sollecitazioni rigidamente proporzionali ai carichi applicati); può non esserlo quando invece entriamo nel campo dell’analisi limite, metodo di analisi privilegiato dagli Eurocodici.

Ma c’è un’altra considerazione che val la pena di fare: è talvolta necessario, nel progetto di un apparecchio a pressione, integrare le prescrizioni di un codice di calcolo con quelle di un altro codice (ad esempio, nel caso che sia richiesto un calcolo a fatica quando il codice di base sono le Raccolte ISPESL, che non contengono prescrizioni al riguardo); ma se invece parliamo di codici nati per la progettazione degli edifici, questa pratica è assolutamente sconsigliabile. In altre parole, non ha senso prendere le pressioni del vento o le accelerazioni sismiche previste nei codici europei per poi eseguire il calcolo secondo le norme americane ASCE o IBC: ciò perché i coefficienti di sicurezza previsti da tali norme vanno visti in relazione ai carichi previsti da quelle stesse norme, dato che sia gli uni che gli altri sono stati contemporaneamente scelti in base a considerazioni di tipo probabilistico che possono eventualmente essere diverse nella normativa europea e in quella americana. Mescolando le cose si rischia quindi di essere o eccessivamente conservativi, o, peggio ancora, di esserlo troppo poco.

E con questo mi fermo, solo per concludere che una progettazione in cui si debba tener conto sia della pressione che di altri carichi non è propriamente una cosa semplice, e che richiede comunque un attento esame soprattutto da parte di chi ha il compito di preparare le specifiche di progetto da dare poi in pasto al povero costruttore, il quale, in base alla PED, dovrà poi assumersene la responsabilità.

                                     Fernando Lidonnici